Lunar Aurora – “Ars Moriendi” (2001)

Artist: Lunar Aurora
Title: Ars Moriendi
Label: Ars Metalli Records
Year: 2001
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Ars Moriendi (Intro)”
2. “Dämonentreiber”
3. “Kältetod”
4. “Black Aureole”
5. “Beholder In Sorrow”
6. “Flammen Der Sehnsucht”
7. “Aasfresser”
8. “Geist Der Nebelsphären”
9. “Outro”

Dimmi come immagini la tua morte e ti dirò chi sei: un imperativo voluttuoso che sottende la necessità di reciproca esistenza tra vita e morte, un abbacchiamento inebriante tutt’altro che repressivo e che induce anche a respirare l’essenza della dicotomia di un reale che sfugge dall’essere carpibile incontrovertibilmente. Lo scintillio di una verità che è tutto tranne che una, o la sola, bensì primariamente duplice e ambivalente, penetra nella mente sensibile per mostrarle dall’interno come si è ineluttabilmente parte di un tutto dinamico, molteplice e flou; ed è da tale epifanico barlume, la cui visibilità si manifesta necessariamente in fieri ma che presenzia in quella mente ab ovo, che questa prefigura la propria immagine in punto di morte. Angoscia e desiderio, speranza e tortura tremenda e deliziosa insieme, avida attesa di vedere cosa stia al di là delle tenebre del sipario che deve fare i conti con un trapasso che si teme sia privo di sorprese, ma che al contempo si sogna di vedere più simile all’abituale culla mossa con grazia da Thanatos e Moros; e se in anni di forte contenutismo delle volontà compositive è giocoforza apparentare strettamente alla stessa “lettura” dei fenomeni musicali certa letteratura, appare quantomeno genuino rapportare “Ars Moriendi” con i vapori fin de siécle di tanta poesia pregna di morbo e consapevole incertezza.

Il logo della band

Irriconosciuto capolavoro spartiacque di un iter musicale che, da quel momento, avrebbe risentito nell’essenza di un’impronta inequivocabile tanto in termini stilistici quanto compositivi, il quarto album dei Lunar Aurora dimostra davvero come non sia necessario un evento dalla forza coattiva o asfissiante per condurre uno stile ed una carriera intera in una nuova direzione. I germi di tale orientamento erano infatti già presenti in potenza sul finire di “Of Stargates And Bloodstained Celestial Spheres” –nonostante possa una lettura forse davvero deplorevolmente retrospettiva influenzare senza alcun indugio un tanto potenziale quanto sicuramente fallace ascolto obiettivo– e l’allora trio bavarese non può, nel 1999, oculatamente che smettere di guardare sventuratamente troppo in là per respirare a fondo e nel buio ciò che serba loro il cammino fin lì percorso. A cavallo tra la chiusura sia di Kettenhund Records che di Ars Metalli (la prima per lo sfortunato assassinio del suo fondatore Andreas Lacher dopo sole tre splendide uscite in due anni, materializzatesi dal 1997 al finire del millennio, e la seconda per la bancarotta ad inizio del successivo che finisce per accomunare peraltro in particolare proprio le sorti Lunar Aurora e Nagelfar), rimasti dunque discograficamente orfani e prossimi allo stallo in pubblicazione di quei due potenziali apripista di svariati anni precursori in sensibilità (quegli “Elixir Of Sorrow” e “Zyklus” composti e registrati a nastro tra la fine del 1999 e la fine del 2002, ma pubblicati soltanto nel 2004 al culmine dei ritardi e problemi organizzativi con la nuova label per il primo dei due), è così che la band dei fratelli König al volgere del nuovo millennio riesce a trarre nuova linfa vitale dalle proprie orme per restituire in una luce innovativa e spontaneamente personale –tanto nell’economia della produzione discografica, quanto ad ampio spettro nel terreno di un Atmospheric Black Metal allora appena solcato dal vomere delle creazioni tedesche– ciò che non andava cercato altrove se non nel bacino dei propri familiari timori.

La band

Ciò che si mostra non è un congetturale scenario di morte, una proiezione di ciò che si prova proiettato oltre il velo della contingenza, ma espressione di un percorso verso la fine che trova in essa tutt’altro che una soluzione definitiva: una corsa guidata dalla cieca angoscia per ciò che sta dietro e davanti, sopra e sotto; una tensione obbligata e fermamente sognata che induce a mantenersi con calibratissima equidistanza in quella zona intermedia, al contempo pregna e del tutto aliena a ciascun limite, a prescindere dal punto di vista; un movimento vorticoso, spezzato, angolare, perfettamente polimorfico ed imprevedibile; un senso di accelerazione progressiva che non trova però mai il proprio acme, che non ha un centro né un’essenza in sé, fatta salva la propria consapevolezza di non avere alcun cuore. Tale continuo peregrinare senza meta e a velocità ineludibilmente prevaricanti non costituisce quindi una immaginifica predestinazione, ma è specchio ambivalente di una condizione affatto terrena e profondamente umana. La luce fioca di una lanterna fracassata a terra sta per spegnersi al fianco di un vecchio morente: sopraggiunge qui, nel 2001, quel barlume di istintualità consapevole, la corsa da e verso l’ignoto ha inizio e dimostra sin dall’inizio le proprie imprevedibili direzioni: i sintetizzatori che sembrano piovere come raggi di luna tra le fronde anticipano in “Ars Moriendi” la brutalità di una batteria frenetica che vive di forza propria in “Damontreiber”, mentre quando il cammino si interrompe improvvisamente perché si scontra con un’angolatura imprevista muta radicalmente come sotto un colpo di frusta – è il tempo dell’ignoto, del fumé, del vagare a tentoni nel buio. L’essenza del convulso vagare di un’anima in lotta con sé stessa perché priva ed intrisa di istinto e ragione viene fatta librare in un limbo frutto di una rivelatrice commistione tra zone e direzioni diverse che, mischiandosi e compenetrandosi, danno vita a quella epifania, a quell’ambivalenza certa e alacre che accompagna da e per sempre i nostri sguardi. Quel barlume trova quindi espressione nella squisita alternanza di volumi tra voci e batteria in “Black Aureole” o in “Flammen Der Sehnsucht”, dove il nomadismo di un ringhio ora chiarissimo e ora nelle retrovie di un’azione tutta impostata sul martellare inesorabile di una batteria violentissima manifesta un gioco di apparizioni il cui affascinante rilucere non può che apparire ancora più suggestivo in un’atmosfera cupa come quella creata da un uso così liquido delle chitarre; una complessità quasi corale di toni che sovrappone a frottage la segmentazione della voce con l’angolatura dell’impianto strutturale dei singoli brani rende i propri contorni più definibili ad intermittenza ogni qual volta si tenti di fare un passo troppo in là o troppo in qua: di tale tenore sono del resto i graffianti ammonimenti dell’afflato moribondo che, in “Flammen Der Sehsucht”, invoca i guardiani alle soglie del mondo rivolgendosi direttamente a loro con chiarezza tagliente quanto le lame con cui questi minacciano le anime sperdute che fin lì si trascinano, anelando a disvelare ciò che sta dietro all’apparenza e alla coscienza. Il cammino dello spirito è tuttavia ancora incerto, evocativo, vaporoso: la tenebra non è totale –e anzi, è la presenza stessa della luce ad intermittenza a rendere l’atmosfera ancora più terrificante– e si accompagna a sussurri luttuosi, a respiri affannosi e a passi consapevoli che tuttavia affondano in un terreno instabile (così come accade in “Beholder In Sorrow”, dove la voce si trascina come l’ultimo respiro rubato da quella kältetod sparendo in un silenzio assordante di un vuoto tutto interiore) inducendo a guardarsi continuamente attorno, temendo e sperando di vedere qualcosa di spaventosamente irriconoscibile e mostruosamente familiare; uno sguardo che accompagna un peregrinare attivamente ossessionato ma che è oggetto a sua volta di un occhio nero che, avvolto da piume del medesimo non-colore sulle cime di alberi spogli morsi dal gelo premonisce la necessaria posizione di straniamento a cui inevitabilmente -e questa volta davvero con certezza- il cammino condurrà dopo aver subito il travaglio di un urto perpetuo accompagnato da quell’intollerabile fracasso del carcame schiacciato sotto il greve passo del tempo. Dopo lo scambio di sguardi di “Aasfresser” non resta che chiudere gli occhi, è il momento di abbracciare quella che ormai è diventata una certezza nel momento più emblematico e premonitore di futuro dell’album intero tra le sofisticazioni di “Geist Der Nebelsphären” e l’ambientale conclusione.

Lo sguardo sulla mortalità è ormai alto, contemplativo, consapevole e pertanto autenticamente sprezzante; frutto dell’incestuoso rapporto tra Fato e Morte, l’anima si appresta ora a voltarsi verso un nebuloso avvenire dello spirito conscio di essere mutilo, privo di prospettive. L’appello è all’infante, germe incontaminato che può rimanere tale solo se non invaso da alcun soffio vitale, già preda di una fuga da anime tormentate dall’elisir del dolore, dalla schiavitù dei secoli, ma ormai pronto a rifugiarsi in un sogno eterno: il sipario, solo a questo punto, si alza.

“J’étais mort sans surprise, et la terrible aurore
M’enveloppait – Eh quoi! N’est-ce donc que cela?
La toile était levée et j’attendais encore.”

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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